martedì 15 marzo 2011

UNA LUNGA STORIA CAPITOLO 4


UNA LUNGA STORIA CAPITOLO 4

Come già detto, avevo un fratello di nome Daniele, anzi due, ma l’altro, Marco, il secondogenito, purtroppo visse solo diciotto giorni, per una malformazione cardiaca congenita, con grande disperazione dei miei, in particolare di mamma che ebbe una vera e propria crisi depressiva dalla quale per farla riprendere ci volle molto tempo e un altro figlio, per l'appunto Daniele.
Tra noi c’erano nove anni di differenza con Marco meno ma non rammento esattamente quanti.
I primi concreti ricordi di mio fratello cominciano dalla casa di V. Gran Paradiso, lui aveva circa tre anni ed io dodici.
Prima era talmente piccolo ed io talmente distratto dalle mie cose, che non potrei focalizzare un particolare avvenimento significativo, salvo che era molto piccino ma smodatamente vivace e agitato sino a sfiorare l’anomalia.
Mi torna in mente tuttavia il fatto, che quasi tutti, meno mamma, lo sfuggivano come la peste, perché era disubbidiente e gli piaceva fare dispetti a tutti anche, a volte, pesanti, anomali per quell’età, che non davano mai la sensazione di accadere per caso, ma di essere molto ben premeditati.
Sembrerebbe impossibile, data l’età, ma diciamo che, in questo, era molto precoce.
All’epoca, lui sarebbe voluto venire sempre dietro a me, quando uscivo e questo per almeno due o tre anni, cosa che io non gradivo affatto e sentivo come un imposizione, una palla al piede, quando mamma o babbo mi costringevano a portarlo.
Ripensandoci adesso sembra una cattiveria, perché non c’è dubbio che, pur nel suo modo di solito fastidioso, con quel comportamento mi dimostrava affetto, forse ammirazione, senza che io sapessi contraccambiare con gesti di tenerezza, ma anzi dimostrando fastidio nell’averlo vicino.
All’epoca era grassottello e piccolo di statura e perciò, le volte in cui ero costretto a portarlo, facevo in modo, tenendolo per mano, di camminare talmente svelto che, per starmi dietro, faticava molto ed ho un preciso ricordo di lui, tornati a casa, affannato e con le guance tutte rosse.
Chissà, probabilmente speravo che stancandolo in quel modo, la prossima volta non avrebbe insistito per venire, illudendomi perché lui non si tirava indietro mai.
Ancora ne sento il rimorso, perché prendersela con un bambino in quel modo, adesso sembra crudele ed effettivamente lo era, ma ero un ragazzino anch’io e non sentendo all’epoca un grande trasporto affettivo, ma anzi fastidio, questo comportamento ne era la conseguenza, anche se,mi rendo conto che non è una scusa accettabile.
Probabilmente c’entrava la grande differenza di età, anche se non ho neanche tentato di costruire un rapporto, né in quel momento né mai, perché non l’abbiamo veramente avuto per tutta la vita, almeno quello che sarebbe giusto ci fosse tra fratelli.
Mamma l’ha sempre attribuito alla mia gelosia, ma io non credo che fosse quello il motivo, perché, fin da piccolo, non ho mai desiderato essere coccolato da lei, facendoglielo capire da subito e anche in qualche caso bruscamente,addirittura prima della nascita di Daniele.
Fu normale perciò che lei riversasse tutta la sua capacità di dare affetto, anche in senso fisico e tangibile, su Daniele, cosa che io sentii come una liberazione e non come una privazione, ma che non potrò mai farle capire o credere.
In quanto a Babbo all’epoca era tutto meno che tenero con entrambi e neanche molto presente.
Con il passare degli anni, mi rendo conto che mi capita spesso di ricordare meglio piccoli episodi come quello appena descritto, rispetto ad avvenimenti molto più importanti e decisivi e forse è più comune di quanto si pensi.
Una logica c’è. Infatti, in quei casi, sarebbe bastato poco per modificare gli eventi e perciò il ricordo è di una cosa che avresti potuto correggere, ma non hai voluto o potuto, qualunque siano i motivi o le scusanti.
Le nostre vite procedettero su due binari completamente separati, pur vivendo insieme e lui venne su con un comportamento che tutti quelli che l’hanno conosciuto all’epoca, attribuivano a cattiva educazione da parte dei genitori.
Parenti,amici e conoscenti erano assolutamente certi che non avessero fatto altro che viziarlo in tutti i modi, ma in seguito si dimostrò che, in parte, era vero,ma c’erano anche motivazioni molto diverse, di natura psicologica.
Con il senno del poi, in quel periodo,forse si poteva ancora fare qualcosa. Se fosse così, non c’è dubbio che abbiamo tutti un po’ di responsabilità, anche se nessuno di noi era un medico e prevedere quello che sarebbe successo, era davvero impossibile come hanno dimostrato specialisti che lo visitarono in seguito e che, a mio avviso, hanno fatto più male che bene.
Uno dei fattori scatenanti per Daniele fu la separazione, sia per tutto quello che era successo prima, che per il reale distacco.
Si sentì colpevole o almeno questa è l’opinione sempre sostenuta da mamma, visto che, per il suo comportamento, era normale che fosse continuamente rimproverato, per un infinità di motivi.
Quale colpa meglio di quella poteva accollarsi? Sembrava fin troppo facile. Sentendosi inoltre lacerato dall’abbandono, in quanto legatissimo, quasi innamorato, del padre.
Non potrei, però, giurare che sia andata veramente così o se mamma sostenesse questo, per dare, magari inconsciamente, ulteriori responsabilità a babbo o perché ci credesse veramente.
In quella fase, lui aveva circa dodici anni, che di per sé è già un’età abbastanza difficile, in più si trovò solo con mamma, alla quale, malgrado non si possa attribuire assolutamente nessuna colpa perché, certamente, non l’ha trascurato, forse lui aveva bisogno di una guida più autoritaria, invece babbo lo vedeva molto raramente ed io, anche meno.
Si vedevano solitamente un pomeriggio a settimana, durante il quale un padre non ha certamente voglia di indirizzare la vita del figlio, ma molto più di starci insieme e il figlio altrettanto.
Per quanto mi riguarda, in quel momento avevo problemi miei da risolvere che per me erano fondamentali e non credo che gli sarei stato d’aiuto,se anche lo avessi visto assiduamente, in fondo avevo solo ventuno anni e una vita complicata.
Quello che è certo è che ancora, a quel punto, nessuno di noi immaginava che la sua vita avrebbe preso la piega che poi ha preso. Saremo stati imprevidenti, poco indagatori, ma sicuramente non siamo stati i soli.
Mamma che ci viveva insieme, cominciava ad avere qualche sospetto che ci fossero problemi che sarebbe stato bene far esaminare da un medico specialista, uno psichiatra o uno psicologo infantile e così fece, purtroppo, non tanto per la decisione in assoluto, quanto per la sfortuna nella scelta del medico.
Nella vita spesso capita che ti estraggano i numeri sbagliati. A Daniele è successo un po’ troppo spesso.
Lo portò alla Neuro Infantile dell’Università e il “responso” fu che lo doveva lasciare più libero, che una madre apprensiva ed oppressiva non poteva che fargli del male e che responsabilizzandolo le cose sarebbero probabilmente migliorate.
Non solo incompetenti, ma anche irresponsabili e anche lei che ha dato loro retta, ma mi chiedo, al suo posto, io come mi sarei comportato? Probabilmente allo stesso modo.
Le conseguenze di quella decisione, verosimilmente hanno portato, almeno in parte, agli avvenimenti che sono seguiti.
Che una madre troppo oppressiva possa essere, spesso, un danno per un figlio adolescente,è possibile e anche ragionevole, ma che degli esperti non si siano resi conto che Daniele, lasciato a se stesso, potesse finire molto male, mi appare incredibile.
A noi profani sembrava piuttosto probabile, magari senza prevedere tutto quello che poi è realmente successo, ma rendendoci chiaramente conto che senza un controllo e una protezione, poteva mettersi in guai seri.
Saremmo dovuti intervenire sia babbo, sia io, ma non era così semplice perché, io non ne sapevo niente e mi è stato raccontato anni dopo, e mamma chiedeva aiuto a babbo solo per problemi economici, oppure  pretendeva  che lo castigasse, quella volta a settimana che si vedevano, ma quando si trattava di prendere decisioni sul futuro, Daniele era una cosa sua e non permetteva più di tanto di interferire.
Diciamo che questo non ci solleva dalle nostre responsabilità e soprattutto non le addossa tutte a mia madre, perché noi, in particolare babbo, avrebbe dovuto imporsi e prendere in mano la situazione, se non fosse stato troppo occupato con la sua nuova vita.
Ho la netta convinzione, però, che si poteva fare ben poco, sia perché nessuno nasce “imparato”, sia perché, forse, il suo destino era segnato dalla nascita, anche se negli anni ho conosciuto alcune persone un po’ “picchiatelle” che, essendo state protette, sono riuscite a fare una vita quasi normale, avendo rapporti, lavorando ed in qualche caso, facendosi anche una famiglia.
Il problema è che, nel bene e nel male, non ci sono due persone uguali e neanche due malattie uguali e perciò, tutti questi discorsi su quello che poteva succedere con comportamenti o azioni diverse, lasciano il tempo che trovano, il dubbio mi resta e non credo che riuscirò mai a togliermelo.
Tutto quello che ha fatto mamma in quel periodo e anche prima e dopo, era dettato da un amore illimitato e dal fatto che sicuramente si sentiva sola a prendere decisioni, anche se si guardava bene dal chiedere consiglio e soprattutto dall’ascoltarli, ma è pur vero che ognuno di noi evitava di fare grandi pressioni per impegnarsi con Daniele.
Insomma lei era un’accentratrice per ciò che riguardava il figlio e lo riteneva sua proprietà, ma spesso questo comportamento,senza ammetterlo, a noi faceva comodo, specialmente quando ci levava le castagne dal fuoco e con Daniele succedeva spesso.
Fatto sta, che mio fratello da allora cominciò a frequentare compagnie strane, nelle quali si faceva anche uso di droga, a fare molto tardi, a non andare bene a scuola, sino ad arrivare a lasciarla dopo la terza media, sempre con mamma che cercava di fare di tutto per tenerlo fuori dai guai.
Tutto ciò dette inizio, da parte sua,ogni tanto, anche a una serie di discorsi allucinati, di parole senza senso che parevano dettate da visioni che aveva, ma che non spiegava, per fortuna ancora abbastanza limitate e alternate a momenti di lucidità, ma molto preoccupanti, a detta di mamma, provocate o accentuate dall’uso di droghe, a quanto pare, sino allora, solo leggere.
Questo convinse mamma ad allontanarlo da quell’ambiente cercando un posto, dove la droga non fosse così presente, la vita ancora umana e cominciando, per prova, a portarlo per alcuni mesi l’anno a Tenerife, nelle isole Canarie, posto che, oltretutto, poteva permettersi economicamente.
Trovare il posto adatto, andarsene all’estero praticamente da sola, per la prima volta in vita sua, e riuscire bene o male a circoscrivere un figlio che si andava sempre più rendendo difficile da contenere non deve essere stata un’impresa facile per una casalinga ultra cinquantenne.
In questi viaggi ogni tanto ci racconta di avventure apocalittiche, dove era spesso costretta a inseguire il figlio che di colpo spariva, magari all’estero o in viaggio o cominciava a camminare con un passo che per lei era impossibile da seguire perdendoselo per poi di solito, per fortuna, ritrovarlo o in giro o a casa quando rientrava.
Insomma da diventarci matti, per stargli dietro,nel senso letterale della parola .
A quel punto Daniele cominciò a darle l’assillo con l’idea di voler viaggiare solo, e naturalmente le mete erano quelle tipiche dell’epoca, l’Olanda in Europa e l’India in Asia, i normali percorsi dei giovani di allora, alla ricerca della droga libera.
Insisteva dicendo che era grande e che una parte dell’eredità di babbo gli spettava e in più era anche spalleggiato da quegli illustri” scienziati” che lo tenevano in cura e che continuavano a consigliare mamma di lasciarlo libero, eravamo ormai nel 1973 e babbo era già morto, loro abitavano soli nella nuova casa, Rita e io nella vecchia, appena sposati.
Nonostante il mio parere contrario, era tale l’assillo che le dava, che finì per acconsentire, lasciandolo andare per pochi giorni, prima in Olanda, dalla quale tornò sempre più strano ma neanche tantissimo, ma soprattutto in India dove restò molti mesi.
La storia dell’India è avvolta dal più assoluto mistero, perché non si sa bene cosa abbia fatto tutto quel tempo, anche se si sospetta che dopo avere girato un po’ si sia fermato nella spiaggia di Goa, ritrovo di molti ragazzi che vivevano lì, mangiando dormendo e drogandosi sulla sabbia, giorno e notte.
Bisogna tenere presente che influivano nel comportamento di questi ragazzi, perché ce ne erano diversi, anche teorie indiane sull’esistenza, spesso capite male e mai veramente approfondite, talmente diverse dalle nostre, che venivano recepite solo per il loro lato superficiale,per le manifestazioni esteriori.
In ogni caso se fosse stato per lui, non sarebbe più tornato e con il senno di poi chissà se non sarebbe stato un bene.
Probabilmente sarebbe morto lì, ma non sono certo che sarebbe stato più infelice di quanto lo è stato dopo con noi.
Una cosa è certa quando penso a mio fratello, salvo pochissimi momenti particolari, penso alla persona più infelice che abbia conosciuto nella mia vita.
Ci volle la costanza di mia madre, che aveva perso tutte le notizie su di lui, che attraverso il Ministero degli Esteri, l’ambasciata in India e non so quante altre associazioni, riuscì a trovarlo e a farlo rimpatriare, prontissima a partire, andando a cercarlo di persona, se non fosse riuscita.
Ma purtroppo tornò un’altra persona, che noi non riconoscevamo più, magrissimo, lui che era sempre stato tendenzialmente grassottello, vestito all’indiana, sia nell’abbigliamento che nella pettinatura, ma soprattutto con delle manifestazioni che non aveva mai avuto, almeno a quei livelli.
Aveva visioni, parlava con se stesso, era fissato di avere all’interno qualcosa di diabolico e sputava in qualsiasi ambiente fosse, ogni pochi secondi, per espellere da sé ciò che secondo lui aveva dentro e questo senza dare naturalmente nessuna spiegazione.
Non so, dove trovasse tutta quella saliva.
Ricordo che appena tornato,era in agosto e  mamma lo portò con noi all’isola d’Elba, forse nella speranza che si riprendesse; il che mi rammenta uno strano episodio, data la situazione. Lui così strano sia come modi che nell’abbigliamento, una sera rimorchiò pure, anche se non se ne fece niente perché le ragazze erano due e io stavo con Rita.
Questo dice che spesso le donne sono abbastanza buffe, non tutte per fortuna, anche se bisogna dire che Daniele era di bell’aspetto, sia pure combinato in quel modo, anzi forse, proprio per quello, dal punto di vista almeno di quelle ragazze.
Con questo, da quando le cose andarono peggiorando, non voglio dire che lui avesse l’aspetto e il comportamento del malato di mente, sempre, perché ogni tanto i suoi momenti di lucidità e alcuni atteggiamenti ironici che denotavano senso dell’umorismo, li aveva.
Se lo ripenso, quello che più mi rimane in mente sono i suoi occhi, che da piccolo erano bellissimi, furbi, intelligenti e con la malattia spesso diventavano allucinati, fissi senza una vera espressione, assenti, persi chissà dove, ma non buoni.
Eppure anche nei momenti brutti, alcune volte, magari per un attimo, ritornavano gli occhi di quando era giovane che ridevano senza parlare.
Dopo di allora Mamma intensificò i viaggi alle Canarie di cui so poco. 
So parecchio invece dei periodi in cui stava qui e dei ricoveri, giacché ogni tanto veniva percossa da Daniele, tanto che lei finiva in ospedale e lui in ricovero coatto in qualche Ospedale Psichiatrico.
Gli episodi sono stati molti, ai quali ho sempre assistito, e le esperienze non sono state gradevoli per nessuno. Ricordo i primi ricoveri al Santa Maria della Pietà, che allora era ancora un vero e proprio Manicomio e nel quale almeno le prime (credo due) volte fu sottoposto ad elettroshock.
Sull’elettroshock, pur essendo un profano, devo dire che, non so se sia giusta almeno in certi casi, la demonizzazione che se ne fa. Sicuramente la cosa in sé sembra una tortura e una cosa barbara, ma alcuni risultati li dava e spesso anche durevoli nel tempo, almeno alcuni mesi.
In quei mesi, non dico che Daniele guarisse, era un po’ meno pronto i primi due o tre giorni, ma poi neanche tanto, sicuramente ritrovava una certa pace che gli ridava un po’ di tranquillità e  gli permetteva un vivere civile con gli altri, in particolare con chi gli stava accanto, giacché è tipico, per i malati di mente, riversare tutti i loro problemi e anche i loro istinti più violenti, verso le persone che amano.
In quel periodo riuscimmo a conoscere l’unico dottore, di vecchio stampo, che si pronunciò sulla diagnosi, perché dopo l’hanno avuto in cura molti altri, ma quando si trattava di fare una diagnosi, facevano tanto giri di parole senza dare risposte concrete, precise e ancora meno sulla prognosi.
SCHIZZOFRENIA.
Mette paura solo a pronunciarla e nonostante le parole di alcuni medici della corrente di Basaglia, che in quel periodo cominciava ad andare di moda, toglie ogni speranza.
Intanto passavano gli anni e il Santa Maria Della Pietà, veniva, un po’ per volta, trasformato e, in uno dei tanti ricoveri, Daniele capitò in un reparto di quelli Basagliani, all’avanguardia in quel tipo di cure.
Devo dire che all’inizio ci credemmo tutti. Furono tolti tutti i medicinali a Daniele e incominciarono la psicoterapia a lui e anche a tutti noi.
A parte la puerilità di com’era eseguita che, probabilmente, per un malato di mente, ma doveva stare proprio male, poteva anche essere accettabile; per gente “ normale”, era una messa in scena piuttosto ridicola con giochini infantili, tendenti a provocare reazioni caratteriali e psicologiche, sia da parte del malato, sia dei parenti.
Il tutto davanti a uno specchio, aldilà del quale era piuttosto lampante che ci fossero altri medici ad assistere e giudicare senza essere visti, un po’ come nei film, ma quelli scadenti.
Il conclusione di tutto ciò è stato che il loro principale scopo era di trovare un colpevole che possibilmente non fosse il paziente, ma un familiare, il più stretto possibile, qualcuno che potessero prendere di mira insieme al malato, ma il fatto è che non ottennero niente, anzi secondo me Daniele peggiorò.
Era piuttosto evidente e, abbastanza rapidamente dovettero rendersene conto anche loro, che non c’era nessuno da incolpare e che tutti avevano fatto come minimo del loro meglio.
La cosa più penosa, fu che appena i medici si resero conto che non ottenevano risultati apprezzabili, con scuse poco credibili, si defilarono il più presto possibile, inseguiti da mamma, specialmente uno che, molto giovane, ci aveva dato tante illusioni alle quali specialmente lei si era aggrappata, ma che finì per sparire anche lui quasi subito, come gli altri.
Fatto sta che ci ritrovammo soli e parecchio delusi, soprattutto mamma che dovette far buon viso a cattivo gioco e tirare avanti così riuscendoci solo per lo sconfinato amore che lei nutriva per il figlio e per una volontà indomabile.
La cosa più penosa e cattiva che dei medici possano fare è proprio darti delle speranze e poi togliertele di colpo, senza avere il coraggio di stare lì ad affrontare insieme le conseguenze di una così cocente delusione.
Gli incidenti furono ancora molti, e i ricoveri pure e ho il ricordo di scene struggenti nelle quali l’ambulanza portava via Mamma magari con le braccia entrambe spezzate e i Carabinieri Daniele, che si ribellava violentemente con urli e  pianti, sostenendo di non aver fatto niente di male.
Mi è rimasta come un’immagine da spezzare il cuore per gli avvenimenti in sé, per il dolore, ma anche per la costatazione d’impotenza. Una sensazione che durante tutta la mia vita ho provato pochissimo, essendo stato sempre convinto, in tutti gli altri casi, che una soluzione ci fosse e che io la avrei trovata, di fronte a qualunque problema o difficoltà.
Ma dovetti arrendermi, anche se provai in molti modi, parlandoci, mettendola sul piano della logica, del razionale, poi dell’interesse suo, dell’utilità, ed infine basando tutto sull’amore, sull’affetto.         
Ricordo un episodio particolare che durò abbastanza a lungo, nel quale di colpo e non so assolutamente per quale motivo, divenne all’improvviso totalmente catatonico.
Stava sdraiato sul letto senza mangiare bere e parlare, superando i limiti della resistenza umana. Stetti con lui a lungo parlandogli continuamente, soprattutto dei rapporti tra noi, con mamma e con tutti quelli che lo amavano, sino a essere coinvolto sentimentalmente come non mi era mai successo.
Non ci fu modo di farlo parlare, non avevo neanche la certezza che mi sentisse o mi ascoltasse.
Poi di colpo, un giorno, si alzò e ricominciò la sua vita normale. Anche cercando di chiedergli spiegazioni, non sono mai riuscito a sapere i motivi di quell’avvenimento, ma credo che non li conoscesse neanche lui.
In seguito, mamma iniziò a intensificare sempre di più i viaggi alle Canarie e ad allungare i periodi di residenza, iniziando a cercare una casa da comprare in un posto che andasse bene sia per Daniele che per lei.
Nel frattempo, sempre per togliersi dal quartiere e da Roma che ormai erano accumunati solo a brutti ricordi, entrò nell’ordine di idee di vendere casa per comprarne una in un posto tranquillo dove ricominciare una vita accettabile,serena.
Vendere fu abbastanza facile, comprare un po’ meno, perché trovare in un raggio di 30-50 km intorno a Roma, un posto dove la vita fosse tranquilla e dove la droga non fosse arrivata, non era cosa tanto semplice.
In più, sarei dovuto rientrare in una cifra accettabile , perché dovevano bastare i soldi ricavati dalla vendita della casa di Roma, meno una parte che mamma giustamente voleva trattenere, per sicurezza.
Alla fine lei riuscì a trovare la casa adatta alle Canarie, sempre superando difficoltà inimmaginabili per una donna d’età, sola all’estero, ed io trovai una proprietà, molto bella ma, sicuramente troppo grande per noi, a circa 40 km da Roma, in un vecchio borgo medievale con 350 abitanti e con una grande casa, una dependance e 18000 mq. di terreno, il tutto diroccato e da ristrutturare.
Naturalmente prima di comprare la feci vedere a mamma che approvò la scelta, anche se adesso sostiene di aver fatto scegliere noi.
 
In ogni caso fu una scelta molto avventata da parte di tutti, poiché nessuno di noi, in particolare io, che avevo la possibilità di imporre certe decisioni, ci rendemmo conto di quello che ci aspettava nel bonificare una proprietà così vecchia e in più abbandonata da almeno dieci anni.
Una volta andato tutto in porto, si stabilì, in linea di massima, una consuetudine nella quale mamma e Daniele, stavano in Italia dalla primavera all’inizio dell’estate e alle Canarie il resto dell’anno.
Noi vivevamo nella casa grande, della quale, essendo ridotta malissimo, era utilizzabile solo il piano terra e mamma con Daniele utilizzavano la dependance che era in condizioni certamente migliori.
Questo creò una complicazione perché entrambi si sentirono tenuti a distanza, ma considerando che con Daniele, a parte mamma, nessuno era in grado di convivere e far capire questo a lei era davvero impossibile, c’era da scegliere come dividerci nelle due case e a me sembrò che per loro la sistemazione più decente fosse quella, pur essendo disposto a fare a cambio in qualsiasi momento.
Fatto sta che, senza che ne venisse fuori un palese attrito, specie quando noi non c’eravamo, Daniele coglieva l’occasione di venire su a stare nella casa grande.
Gli dava la sensazione di essere il proprietario e non un ospite, anche se Mamma non perdeva occasione per rassicurarlo che tutta la proprietà era di entrambi, che poi era la verità in quanto, quando fu fatta la vendita, io mi premurai di assegnare la nuda proprietà a me e l’usufrutto a Daniele.
Tutto ciò mi fa tornare in mente un episodio nel quale si capisce che Daniele sarà stato un po’ picchiatello ma non scemo e che ogni tanto ricordava il senso dell’umorismo che da giovane aveva.
In mezzo a tutti questi problemi, mamma ha trovato il tempo e la voglia di diventare Testimone di Geova, coinvolgendo Daniele il quale, a me non è mai sembrato molto convinto, anzi ho sempre avuto la netta impressione che non li gradisse per nulla.
Lei sosteneva, forse non a torto, perché quello è proprio il modo che hanno per fare proseliti, che erano stati gli unici che l’avevano aiutata anche con Daniele, anche se a me risulta che non sia del tutto vero e che almeno non siano stati i soli.
Per tutte le cose dette sopra, continuava sempre a rassicurare Daniele che la proprietà era anche sua, ma malgrado lui non fosse tanto convinto della cosa, comunque la stava a sentire.
Capitava ogni tanto, quando loro stavano in Italia, che qualche Testimone di Geova andasse a trovare mamma a casa e spesso c’era anche Daniele.
Questi si presentavano in modo molto ufficiale, anche se conoscevano mamma da tanto, tutti azzimati, lustri, con la loro valigetta contenente le riviste per studiare le Sacre Scritture e con un modo di porsi e di esprimersi molto formale, sempre attenti alle parole da usare.
Proprio il tipo di persone adatte a Daniele.  
Una di queste volte che evidentemente non aveva gradito la visita, chissà per quali motivi, si rivolse a mamma davanti a loro:
  • E’ la verità quando mi dici che tutta questa proprietà è mia?
  • Certo;
  • Anche questa casa?
  • Naturalmente;
  • Allora andate tutti affanculo fuori di qui, voi e le vostre borse.
Purtroppo io non c’ero, mi è stato raccontato, ma posso immaginare la faccia di mamma e degli altri e credo che non sarebbe stata da perdere, considerando che lei non dice parolacce e dimostra un rispetto e una soggezione verso “i fratelli” (così si chiamano tra di loro), alle volte, secondo me, anche ingiustificata.
La vita continuò con alti e bassi quasi sempre simili, con mamma che, con una costanza invidiabile, cercava inutilmente di interessare Daniele a qualche attività, sia qui che alle Canarie, qualche viaggio nostro a trovarli, dei quali non ho un grande ricordo ma che non mi pento di  aver fatto.
Devo dire che l’accoglienza che è stata riservata a Rita e me, ogni volta che siamo andati, è stata la più completa possibile e noi abbiamo cercato di ricambiare affittando una macchina e portandoli in giro, mentre Rita prendeva in mano la gestione della casa fino a che restavamo.
Il posto non è un granché almeno per il nostro gusto, sicuramente il mare non è paragonabile per bellezza a quello italiano, anche se c’è una natura rigogliosa, almeno in certi punti, in contrasto con altre zone completamente desertiche.
Le costruzioni sembrano quasi tutte finte e tirate su di corsa il giorno prima e spesso è anche vero, sembra un posto nato poche decine di anni fa, senza una storia, probabilmente non è così, ma l’impressione che da, è proprio quella.
Poi c’è una zona molto turistica che più che a un posto di villeggiatura somiglia a un parco dei divertimenti per grandi.
Chilometri di lungo mare con ogni 5 metri un locale diverso, per intrattenere, per acquistare, per fermasi a consumare, con la musica a tutto volume, sempre diversa e che così miscelata provocava una macedonia di suoni.
Dopo un po’, finendo per non sentirla più, ti lasciava dentro un senso di imbambolimento, che ti restava addosso per parecchio tempo dopo aver lasciato la zona, tanto da portarti a chiederti: mi avranno drogato?
Io non me ne intendo, ma presumo che l’effetto della droga sia abbastanza diverso.
In ogni caso, quando tornavamo da quelle vacanze, eravamo, in genere, più stanchi di quando eravamo arrivati.                                                                               La vita di Daniele procedeva abbastanza monotona con mamma che accuratamente insisteva per fargli prendere le medicine (psicofarmaci) che come tutti i malati psichici rifiutava, ma che alla fine lei a forza di insistere riusciva di solito a dargli.
Questo lo stava trasformando, perché sicuramente era diventato meno pericoloso e più disposto a farsi condizionare, anche se, ogni tanto, qualche reminiscenza del vecchio carattere e degli antichi comportamenti, riusciva fuori e in quei casi, bisognava fare attenzione perché poteva diventare pericoloso, ma per fortuna accadeva sempre meno.
Perciò, da un lato molto meglio, da un altro, si stava modificando psicologicamente, sicuramente era meno sveglio ed intuitivo pur mantenendo un istinto quasi animalesco per le cose che pensava fossero contro di lui.
Cambiava anche fisicamente, perché continuava ad ingrassare in modo eccessivo ed il suo aspetto, malgrado tutti gli sforzi che faceva mamma perché fosse sempre vestito bene o almeno decentemente, era quello di una persona disturbata, magari non pericolosa, ma con dei problemi.
Per fortuna devo dire che alle Canarie specialmente intorno a casa loro, dove avevano fatto delle amicizie, veniva non solo tollerato, ma spesso, da alcuni(e non erano Testimoni di Geova), anche trattato con affetto e ci sono stati avvenimenti, raccontati da mamma, nei quali,i loro vicini, si prodigarono, con grande merito, per aiutare entrambi.
Nell’ultimo periodo addirittura era riuscita anche a farlo smettere di fumare, che, per lui, era una cosa molto particolare, considerando che fumava da un minimo di 100 sigarette al giorno in su.
Non so quanto sarebbe riuscito a reggere senza fumare se non si fosse ammalato, ma il fatto resta rilevante per capire l’evoluzione di quest’uomo che si era adattato a essere un altro, per l’amore e la costanza di una madre.
Capisco perfettamente i motivi che hanno spinto mamma a comportarsi così e a cercare di preservare il figlio e anche se stessa da pericoli gravi e credo che non potesse fare altro, ma continuo a chiedermi se sia giusto, anche se a spingerti è l’amore, cambiare le persone in un modo così totale.
Forse poteva essere giusto per lui, lasciargli fare la vita che desiderava, anche se dal nostro punto di vista era incomprensibile e inaccettabile, qualunque fossero state le conseguenze, permettergli delle azioni attraverso le quali avrebbe magari avuto dei ricordi o delle esperienze sulle quali potesse dire: “in quel momento ero felice”, farlo sentire libero di vivere la sua vita e anche di distruggersi per affermare tale libertà.
Con il senno del poi, dal nostro punto di vista, gli abbiamo permesso di vivere un certo numero di anni in più, dal suo, ammesso che ne avesse uno, gli abbiamo impedito di vivere come voleva lui e gli abbiamo regalato solo infelicità.
Capisco che è solo teoria e che chiunque avrebbe agito, se non precisamente come mamma, almeno in modo molto simile e che non si poteva consapevolmente lasciare al suo destino una persona cara sapendo che rischiava prima di tutto la vita, e nel caso se la fosse salvata, chissà quale altra tremenda esperienza.
Mi chiedo però se viene prima, se è più importante, la libertà individuale, anche di una persona che non è in grado di valutare razionalmente quello che lo circonda, o il diritto di condizionare la vita di chi si ama se fatto a fin di bene?
Quello che è certo è che nel nostro comportamento una certa dose di egoismo c’è stata, visto che certi comportamenti e certe imposizioni erano nell’interesse di Daniele da un certo punto di vista, ma anche nel desiderio, in particolare di mamma, di avere il figlio adorato con sé, evitandogli tutti i pericoli possibili, visto che il privarsene non sarebbe stato neanche proponibile per lei.
Se la vita è un dono, e lo è, secondo me, forse nessuno ha il diritto di condizionarla agli altri per nessun motivo, anche il più giustificato e disinteressato, perché non c’è un diritto alla pace e alla felicità, ma alla libertà sì, anche quando questa, nel suo esercizio, rischi di portare a se stesso morte e distruzione. 
Credo che Daniele non abbia mai avuto un vero amore in tutta la sua vita, non so del sesso, ma sicuramente non il conforto di una donna che ti ama e vuole stare con te.
Avrebbe potuto averla, perché in alcuni periodi frequentava compagnie di ragazzi e ragazze che non è che stavano tanto meglio di lui e alcuni sono stati, per brevi periodi, anche ospiti a casa di Mamma.
So per certo, perché lo confidava a Mamma, che questo gli mancava molto e che provava un po’ d’invidia per me che secondo lui avevo tutto.
All’epoca, in realtà, avevo pochissimo, a parte una moglie che mi amava, ma forse per lui quella era la cosa più importante e le altre questioni pratiche non erano cose che lo riguardassero o che lo interessassero.
Purtroppo, malgrado tutte queste attenzioni, visse poco lo stesso e nel 1993 all’età di soli trentanove anni morì a Roma, ricoverato alla Neuro dell’Università, di tumore al cervello.
Mamma lo portò di corsa a Roma, già in condizioni molto critiche con difficoltà di deambulazione, dopo che alle Canarie le avevano detto che in concreto non c’era più niente da fare, sperando che qui qualcuno compiesse il miracolo.
Era ancora lucido, anche se lo rimase per poco, perché il coma sopragiunse molto presto, ma, purtroppo, durò diversi mesi.
La prima cosa che ci dissero ricoverandolo, senza falsa modestia, era che lì si faceva la vera medicina e non negli altri ospedali e in poco tempo abbiamo potuto costatare quanto questa fosse una vanteria immotivata.
In vari mesi non siamo riusciti ad avere una vera diagnosi, se non che si trattava di un tumore molto raro e che aspettavano la biopsia da non so dove, che almeno a nostra conoscenza o non arrivò mai o non ci fu comunicata.
Nel frattempo iniziarono ad alimentarlo con il sondino perché non era più in grado di farlo da solo, sempre con mamma che non lo lasciava mai neanche la notte, nella quale dormiva su una sedia o per terra, che per una donna di settanta anni anche abbastanza malata non era certo l’ideale.
In tutti quei mesi non ci fu nessuno che si commosse e le desse una sistemazione decente; capisco che stare lì di notte e tutto il giorno era un’imposizione poco gradita, giacché in condizioni normali non era permesso, ma vedere una donna disperata e di quell’età, avrebbe indotto chiunque ad un accomodamento, anche perché non era possibile farla andare via, se non con la forza pubblica.
La strana metamorfosi che ebbe Daniele durante il decorso della malattia fu, che fermo lì su un letto, addormentato, sembrava tornare indietro nel tempo, dimagriva e ringiovaniva e alla fine sembrava essere tornato ragazzo, quasi che la morte volesse cancellare tutti quegli anni di sofferenze e riportarlo a un epoca che ancora era abbastanza felice, prima di portarselo via definitivamente. Alla fine era ridiventato bello.
E successe una notte, con una disperazione di mamma indescrivibile, malgrado fosse preparata ormai da tanto, un dolore senza escandescenze, di quelli che, è chiaro per tutti, uccidono, se non fisicamente, all’interno.
Sono passati diciotto anni, mia madre è ancora viva, in qualche modo è sopravvissuta, attaccandosi ancora di più alla religione, ma una parte di lei è morta con Daniele, cosa che all’epoca forse avrebbe desiderato, ma se si esclude il suicidio, la morte non arriva su ordinazione e per fortuna, in quanto penso che sia rimasta l’unica incognita che ci resta.
Quanto a me e al mio rapporto con Daniele, non sono stato in grado di definirlo fino a che è stato vivo e anche dopo per parecchio tempo. Ho cominciato a sentirne la mancanza relativamente da poco tempo ed anche a indagare quali fossero i miei veri sentimenti verso di lui.
Sicuramente l’ho amato molto, senza rendermene conto, dimostrandoglielo pochissimo e sento come una sensazione di fallimento quando ripenso alla sua vita e a come poteva essere diversa, se fossi stato più altruista e più intelligente, anche se poi, ripercorrendo tutta la sua storia, mi rendo conto che non sono certo che avrei potuto cambiare le cose anche volendo e che se anche avessi potuto, mi dovrò rassegnare al fatto di avere dei limiti e di non essere Dio.
Ma soprattutto, chi non ha avuto quel tipo di esperienza non può capire, ma la malattia mentale, a contatto diretto, per chi non è del mestiere, mette paura e da una sensazione d’incertezza e d’imprevedibilità come nessun’altra e intervenire spesso diventa quasi impossibile.
Lui, malgrado i dispetti che faceva, in particolare da giovane, malgrado la sua malattia che gli ha fatto fare cose cattive in particolare verso mamma, aveva un indole profondamente buona, che nessuno, neanche mamma, è mai riuscita a mettere a nudo completamente, perché nascosta dietro una corazza impenetrabile costruita dai suoi incubi che lo hanno perseguitato tutta la vita e che se ne è andata con lui in un letto di ospedale in una notte di 18 anni fa, lasciandomi il rammarico per non averne fatto la conoscenza quando eravamo ancora in tempo. Mi sarei dovuto presentare.
Per concludere posso solo dire che il 16/8/2005, giorno del compleanno di Daniele, in villeggiatura nel Salento, dodici anni dopo la sua morte, svegliandomi di colpo all’alba, senza premeditazione e solo per istinto, di getto ho scritto questa cosa:
DANIELE
Addio piccolo fiore mai completamente sbocciato.
Ci ho messo tanti anni a capire che mi manchi.
Non ti ho mai veramente salutato e lo faccio ora, dopo tanti anni, perché tra noi è sempre rimasto un contenzioso che solo da poco tempo ho superato.
Con te se n’è andata l’altra parte di me.
Tutto quello che non sono e che non avrei mai fatto.
Se n’è andata, però, anche l’innocenza, quella vera, perché inconsapevole della vera cattiveria.
Se n’è andato anche il desiderio di avventura che purtroppo hai realizzato solo nei tuoi sogni.
Se n’è andato il grande bisogno d’amore che ti è quasi sempre mancato,in quanto l’amore di una madre non basta.
Mi ricordo quando nascesti.
Tutti alla cena di ferragosto sulla terrazza di montesacro, con Giovannino e gli altri e mamma e babbo di corsa in ambulanza.
Io ero piccolo e non mi rendevo conto di quello che succedeva e me la ricordo come una grande scocciatura.
E devo dire che, anche in seguito, scocciatore lo sei ancora stato parecchio, avevi il gusto, credo, non completamente consapevole, di guastare i programmi di chi ti stava intorno.
Un grido di aiuto, una richiesta di attenzioni, portata all’eccesso.
Perché, in fondo, tu da quando sei nato sei sempre stato eccessivo.
Io non capivo e ho continuato a non capire per anni e questo forse è il mio più grande rimpianto. Potevo fare qualcosa?                                                             Non lo so e il dubbio mi resterà per sempre.
L’elenco delle occasioni perdute nella vita di un uomo è spesso lungo o spesso così crediamo, perché chi può realmente predire il futuro e quello che sarebbe successo con un comportamento diverso?
Dopo tanti anni, quello che ti posso dire è che ti ho amato molto, molto più di quanto mi rendessi conto o di quanto apparisse a quelli che avevamo intorno.
Acqua passata. Ormai le cose non si possono più cambiare e perciò voglio ricordarti con quell’espressione da furbetto negli occhi vivaci, che facevano pensare a chissà quali sorprese ci fossero dietro, mentre in genere, spesso, non ce ne erano per niente.

Da solo, mentre scrivevo e rileggendo mi sono commosso sino alle lacrime e considerando che non avevo pianto quando morì e al suo funerale, probabilmente glielo dovevo.


 CONTINUA......... 

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