giovedì 15 settembre 2011

PASSAGGIO A LIVELLO

PASSAGGIO A LIVELLO

di

Bebo Marrosu





Il passaggio a livello era chiuso anche quella sera.

Anzi, devo essere preciso e dire che non l’avevo mai visto aperto. Non perché fosse incustodito, soltanto perché, da una settimana, lo attraversavo alla stessa ora, per andare aldilà della ferrovia verso il casale Colombo.

Era un giugno tiepido quell’anno e, di notte, mi piaceva scavalcare le sbarre di legno che chiudevano la linea ferroviaria, prendere la rincorsa per risalire l’argine opposto, dopo aver attraversato le rotaie.

Era un po’ come un gioco nel quale ci fosse un rischio e, quel gioco, mi faceva tornare indietro di parecchi lustri.

Giugno in campagna è bello, soprattutto per chi è costretto a vivere in città. Si sente, specie di notte, che la terra attende qualcosa e che noi partecipiamo alla sua attesa.

Lì, presso la ferrovia, cresceva l’erba medica che mandava un odore acuto ed inebriante. I grilli avevano già iniziato la loro gara e dappertutto vicinissimi e appena percettibili, si udivano cantare, riempiendo l’aria.

Io scavalcavo le sbarre felice come un ragazzo e prendevo la rincorsa. Udii il fischio del treno. Sembrava molto vicino, ma doveva essere un effetto dell’aria pulita. Non mi affrettai. Come le altre volte, mi accinsi a saltare da un a rotaia all’altra evitando il pietrisco.

Fu allora che misi il piede in fallo, prima ancora di poter vedere la sagoma del treno avanzare velocemente verso di me.

Poi percepii un urto. Come se un muro si fosse messo in moto e mi avesse spinto in avanti. Poi più nulla per diverso tempo, finché una voce gentile mi disse di alzarmi. Ero supino infatti e avvertivo il fresco dell’erba sulla quale ero appoggiato. Alzai gli occhi verso la voce gentile e vidi un vecchio. Non era proprio un vecchio, aveva i capelli bianchi ma la pelle liscia, un po’ lucida come coloro che si rasano con il sapone lampo.

Le sue labbra erano ferme, eppure mi sembrava che sorridesse. Gli occhi parevano avere mille anni; erano saggi e acuti, vivi e pieni di qualcosa che non poteva essere altro che una visione di cose vietate ai comuni mortali.

  • Alzati, ripeté gentilmente lo strano vecchio.
  • Mi sembra di essere morto, mormorai a voce bassa.
  • Ovunque è vita non vi è posto per la morte. La morte dovrebbe significare un arresto del movimento e dell’opera di trasformazione, cosa questa in contrasto con la “vitalità dell’Universo”, rispose lui.

Confesso che restai male. Non era un linguaggio chiaro il suo e non sapevo che cosa rispondere.

Come se avessi espresso il mio pensiero ad alta voce, il vecchio rispose:

  • Non preoccuparti di comprendere tutto. Ora dobbiamo andare.

Così mi alzai.

Davanti a me non c’era più l’argine erboso, dove, ne ero quasi certo, dovevo essere caduto. C’era invece tutto un mondo nuovo. Roba che non avevo mai visto né mai sognato di vedere. Era come se fossi seduto in un immenso anfiteatro e davanti a me si svolgesse il più strano spettacolo che occhio umano abbia avuto la fortuna di poter vedere.

Le cose che mi erano state care nel passato, erano tutte lì. Erano presenti e non occupavano spazio. C’era la mia vecchia casa, attraverso la quale potevo vedere gli altri luoghi dove avevo trascorso l’esistenza. Il vecchio si mischiava con il nuovo, senza toccarlo. Sussistevano entrambi ed erano animati dalle persone con le quali avevo trascorso l’esistenza.

All’improvviso, senza sfiorare il terreno, su di un tratto di mare azzurrissimo, che era come sospeso nell’aria passò, formando due candidi baffi di schiuma, una nave. La riconobbi subito perché, su quella nave avevo compiuto un lungo viaggio. E fu proprio durante quel viaggio che conobbi Lei.

Lei!

Era una storia lunga il cui ricordo non mi faceva bene. Quando si ama e si crede che la fiamma possa durare in eterno si dà troppo, o si riceve troppo, c’è uno spreco di energie insomma, di cui, più tardi, a cose finite quando “lei” non ha più la lettera maiuscola si sente la mancanza. Ora il ricordo di quell’amore, disperato e inutile, mi rattristava come mi aveva rattristato il giorno in cui avevo dovuto convincermi di essere stato vittima di un’illusione. Ma la nave era già scomparsa, mentre pensavo che il colpevole, per quanto era accaduto tra me e lei, ero soltanto io. Avevo avuto torto e non avevo mai voluto ammetterlo, nemmeno per ipotesi.

Ora che la nave non c’era più mi volsi a guardare lo strano vecchio e vidi che sorrideva, ma senza muovere le labbra, a modo suo, come se per lui quel che pensavo fosse chiarissimo e come se la verità, che avevo finalmente compresa, fosse stata vecchia di sempre. Una di quelle verità indiscutibili e semplici anche agli occhi di un bambino.

Udii che il vecchio mi diceva qualcosa, ma senza parlare. Era come se, tra me e lui, si fosse stabilito un contatto fisico come se parlassimo insieme, intenti ad un’opera, come se lui fosse me ed io lui. I pensieri che si susseguivano velocemente erano rapidi ma distintissimi. Avrei voluto gridare che io, lui, la nave, quel che c’era stato prima e quel che sarebbe avvenuto, in bene ed in male eravamo la stessa cosa. E fu allora che seppi e vidi di aver già intuito tutto questo.

Vidi, davanti a me, al posto della nave scomparsa, un uomo in catene, racchiuso tra le mura di una orrida prigione. Lo vidi lacero, sfinito prossimo a morire. Ma, prima ancora di comprendere che altri non era se non me stesso, intuii che un’ondata di amore stava per pervaderlo. Amore per quelle catene che lo imprigionavano, per quel dolore, per se stesso e per chi lo aveva imprigionato, per gli uomini che erano come lui, prigionieri e per tutti coloro che, liberi, godevano il sole.

Forse non feci in tempo ad esprimere tutto l’amore che sentiva, perché non mi riusciva di concludere il pensiero ed egli stava morendo.

Poi, e dovevo aver percorso secoli e secoli all’inverso, vidi davanti a me il terreno che mutava lentamente. L’erba verde di un prato si era ingiallita e la terra era diventata arida e vecchia, spaccata dal sole e cosparsa di sassi. Io la percorrevo lentamente, a fatica. Ero vestito in modo strano, con un corpetto d’acciaio, e sorreggevo qualcuno che sembrava star male. Eravamo stati sconfitti e fuggivamo. Il mio compagno era molto debole. Perdeva sangue e dovetti fermarmi per lasciarlo riposare.

  • Aspetta qui, dissi. Cercherò dell’acqua.

Egli mi guardò con tristezza, come già sapesse che lo avrei abbandonato. E lo sapevo anch’io, ancor prima di pronunciare quelle parole.

Poi, mentre ancora soffrivo per quel mio ignoto compagno abbandonato, fui sulla prua di una barca. Avevo i piedi nudi ed avvertivo il calore del legno su cui poggiavano. La barca si alzava e si abbassava sulla cresta delle onde, ma io ero molto abile e non cadevo. Davanti a me c’erano delle rocce altissime. Una ripida costa verso la quale eravamo diretti. Perché non ero solo. Avvertivo la presenza dei miei compagni, pronti a balzare a terra. Erano come me, seminudi, ne ero certo, anche senza vederli. Io sapevo che loro sarebbero sbarcati ed io no. Sarei stato al sicuro sulla barca.

Cercavo di farmi forza, ma non riuscivo a vincere la paura. Avevo nausea e non sapevo più di cosa. Forse avrei gridato, se la visione non fosse scomparsa. Avevo una grande vergogna di me stesso. Volevo scusarmi, chiedere perdono, ma non sapevo a chi chiederlo perché, quando stavo per farlo, mi accorgevo di rivolgermi soltanto a me stesso. Ero il giudice e il colpevole nello stesso tempo.

Poi, tutto l’affanno che mi aveva pervaso si tramutò in una sensazione dolcissima. Ero in un grande giardino, vestito di bianco e, accanto a me, camminava qualcuno che mi parlava. Aldilà del cancello che era di legno e portava una scritta, che non riuscii a decifrare, c’era un orto nel quale era ammassata un enorme folla. Vecchi, ragazzi, donne e uomini con delle lunghe vesti che toccavano il suolo. Gli uomini avevano quasi tutti la barba ed erano gravi nel portamento.

Qualcuno parlava e tutti ascoltavano in silenzio, con gli occhi fissi verso l’uomo. Sapevo che era un uomo e che diceva cose eterne. Io non lo vedevo ma ero con Lui e mi accingevo a salutare per sempre la persona che mi era accanto.

Dovevo andare, nulla poteva più trattenermi. Sapevo che non avrei mai più portato la elegante tunica che indossavo, sapevo che mai più avrei rivisto la mia casa e i miei cari, ma dovevo andare. Ero felice e sereno come colui che, al termine di un lungo cammino, è finalmente giunto alla meta.

Quasi piangevo di commozione e il vecchio che mi aveva fatto da guida, mi fissava con dolcezza. Ma non bastava quello che avevo veduto sino ad allora. Passò qualche secondo, durante il quale percorsi chissà quali grandi distanze. Ero immerso in una luce azzurra che mai avevo visto sino ad allora.

L’aria era liscia, tersa ed io non sfioravo il suolo avanzando, era come se volassi. Sotto di me c’erano fiori mai visti e l’acqua dei ruscelli non era chiara né sembrava che avesse corpo e il suo colore era quello dell’ambra.

In alto, il cielo era popolato da milioni di stelle mai viste ed il sole che illuminava tutto era azzurro. Io mi libravo felice e parlavo con i fiori, con la terra, con tutto quanto mi circondava ed ottenevo risposta. Sapevo dove ero e mi sentivo pervaso da una serenità indicibile. Lì sarei voluto restare e mi sforzavo di non lasciarmi trascinar via da un rumore.

Un rumore ritmico che mi infastidiva.

Era un “ciuf-ciuf” che mi obbligava a pensare ad altro, strappandomi da quella meravigliosa visione. “Ciuf - ciuf”! Pieno d’ira, mi volsi verso il fastidioso rumore e vidi il vecchio che mi aveva fatto da guida. Era vestito da ferroviere, con il berretto in testa e mi sorrideva gentilmente. Un treno era fermo sul binario, ed io ero sdraiato sull’argine della ferrovia tra l’erba medica. Mi alzai lentamente stordito e incredulo.

Il vecchio sorrise ancora e chiese:

  • Nulla di grave, è vero? L’ho vista mentre cadeva, per fortuna!
  • Nulla di grave, stavo per andar via.

Quando lui disse:

  • Coraggio.

E mi fissò con gli occhi che parevan avere mille anni, tanto erano saggi, acuti e calmi di qualcosa che non poteva essere, se non la visione di cose vietate ai comuni mortali.

“Ciuf - ciuf” fece ancora il treno, e i grilli sembravano impazziti di gioia.

Dovunque, vicinissimi e appena percettibili si udivano cantare.

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Questo è un racconto scritto da mio zio e pubblicato nei primi anni ‘50, che miracolosamente sono riuscito a ritrovare tra vecchie carte di famiglia ed è l’unica cosa che mi è rimasta tra quelle scritte da lui.

Questa credo che sia una delle sue prime cose, quando ancora cercava la sua strada, che un giornale dell’epoca gli pubblicò, in quanto lui, al contrario di me era un professionista e scrivere è stato il suo lavoro per tutta la vita.

L’argomento è piuttosto scontato quasi retorico se si considera che quasi tutti, prima o poi, hanno parlato del fatto che prima di morire si rivede tutta la propria vita in un attimo, ma c’è da considerare l’epoca in cui è stato scritto e forse allora non era così diffusa questa diceria e soprattutto a mio avviso la valutazione più importante riguarda il contenuto e la forma.

In più non tratta di visioni in punto di morte ma di un racconto onirico frutto solo dell’immagginazione.

Probabilmente sono influenzato dall’affetto, ma a me sembra scritto proprio bene se si considera che, essendo destinato ad un quotidiano, avrà dovuto sintetizzare una parte di quello che voleva dire per problemi di spazio, come ben sa chi ha avuto esperienze con le Redazioni.

Lo pubblico con grande piacere, sperando che lo leggano in molti per un omaggio ad un uomo di notevoli qualità, che ho molto amato, pur essendo consapevole che lui era soprattutto uno scrittore di cinema, uno sceneggiatore e che questa non è sicuramente la cosa più bella che ha scritto.

Ho avuto, negli anni, il privilegio di leggere molte cose sue, che purtroppo non ho più perché sono rimaste all’ultima delle molte donne che ha avuto accanto e secondo me, erano veramente notevoli e questo racconto non fa capire quanto fosse bravo.

Malgrado questo, sarei molto orgoglioso se fossi stato capace di scriverlo io.

Ciao caro Bebo, riposa in pace, perché da questo sonno non ti potrai svegliare.

mercoledì 7 settembre 2011

UN PO’ DI PACE, PER FAVORE

Un caro amico mi scrive:

E' stata una buona estate. Il primo periodo in cui ho provato sensazioni non solo di disperazione camuffata da adrenalina. Come se fossi approdato in un luogo dove il dolore della vita diventa uno stato di conoscenza. Un luogo che ti permette di vederti e di vedere il mondo con gli occhi di una vera sapienza che il tempo della tua vita ti concede a piccole dosi. Come se a un certo punto tutto ti apparisse non una gioia o un dolore ma una corollario di condizioni diverse cui l'anima nostra è costretta a sottoporsi per arrivare a capire. Alcuni la chiamano saggezza, altri, più cinicamente, senilità ma io, che del tempo ho un concetto molto, molto poco esatto, la definisco 'percorsoconapprodo'.

Un approdo in cui c'è il mio passato, i miei amori che sono scomparsi alla vista degli occhi, gli amori che invece vedo e che vedrò fino a quando ci sarò. Tutti insieme verso la stessa strada, anche con coloro che ho biasimato o che mi hanno biasimato, che non ho capito o che non mi hanno capito, che non ho condiviso o che non mi hanno condiviso, che ho giudicato o che mi hanno giudicato. Insieme, protesi per raggiungere quella pace dinamica, perfino allegra, dove la musica è il primo linguaggio e l'armonia l'unica legge che tutti regola guarendoci dal dolore della nostra condizione.

E io:

UN PO’ DI PACE, PER FAVORE

Con molto piacere rispondo alle tue considerazioni dell’altro giorno, perché mi rassicurano sullo stato di salute delle tue emozioni, perché m’incoraggiano su una convinzione che ho da sempre che, con il tempo, si è andata rafforzando e perché mi hanno fatto tornare la voglia di scrivere che per un po’ mi era passata e di questo non posso che ringraziarti.

Sono convinto da sempre che quest’omino, piccolo, piccolo, tanto vituperato, di solito giustamente, tanto indifeso, tanto insignificante di fronte all’universo, abbia spesso dentro di se una forza che gli permette, oltre alle innumerevoli opere dell’ingegno di cui ha fornito prova, da sempre, di superare disgrazie, guai o malattie, anche se gravissime e definitive, inimmaginabili per la maggior parte degli osservatori che, essendo anch’essi uomini, tendono di frequente, stranamente, a non riconoscere le proprie potenzialità.

Alcuni riescono a sublimare i problemi con la musica, con nuovi amori e rilucenti amicizie, con le soddisfazioni sul lavoro, tenendosi occupati il più possibile, altri lavorando all’interno di se stessi, che, secondo me, sarebbe la parte più difficile, se non fosse che ognuno è fatto a suo modo.

Poi c’è chi ha la fortuna di avere accanto un grande amore e malgrado tutte le chiacchiere, in due si lotta meglio, si finisce per costituire un corpo unico più resistente anche alle peggiori intemperie.

La serenità, però non si può condividere, è dentro di noi, tutto sta a saperla tirare fuori e su questo credo che nessuno ci possa aiutare, ammesso che sia un traguardo possibile da raggiungere in assoluto.

E’ un grande lavoro verso il quale, a volte inconsapevolmente, tendiamo un po’ tutti, non riuscendo quasi mai a raggiungerla se non per brevi periodi, ma quello che conta, a mio modesto avviso, è la ricerca, senza la quale, niente vale più la pena, almeno credo.

Ho scritto abbastanza di recente che mi piacerebbe diventare “tenero” e nello stesso tempo divertente, non credo che ci riuscirò mai, ma, per me quella è la serenità, il mio bersaglio, il completamento di una ricerca.

Sarei felice anche di raggiungere la consapevolezza di James Stewart in Harvey, quando dice e te lo fa credere: “Mia madre mi diceva che nella vita bisogna essere o molto intelligenti o molto amabili, io avrei preferito l’intelligenza, ma sono diventato amabile”.

Si tratta evidentemente di mie illusioni, ma ti confesso, che mi piace molto sognare quello che potrebbe essere e non sarà, anche se, chi l’ha detto che per forza sia impossibile?

Per cambiare discorso la mia estate con tutta la buona volontà, non posso dire che sia stata come la tua, per usare un eufemismo, poteva andare meglio, ma magari anche peggio.

In fondo sono ancora qui a parlare con te, non sono in grado di fare tutto quello che vorrei, ma ti assicuro che faccio quasi tutto quello che posso.

Ti sembrerà strano che chi per tutta la vita ha cercato le complicazioni, di misurarsi con le difficoltà e quando non era possibile, trovava il modo per inventarsi problemi da risolvere, adesso cerchi la pace e la serenità.

Anche a me.

Questa è la vita, tanto per aggiungere una banalità.

Come sarà domani?.....Forse bellissimo, chissà?

Non fa male pensarlo.